Pensieri per una ecologia sociale

Pensieri per favorire tramite l’urbanistica l’integrazione sociale

Cesate  lì, 21 maggio 2009

Osservando i miei cani ho potuto constatare che la “pace” è una condizione di equilibrio precario tra la quantità delle risorse ambientali e la dimensione del territorio, nello specifico tra quanta pappa gli do (alimentazione necessaria alla riproduzione) e la dimensione del mio giardino.

Il patrimonio genetico, l’educazione e la capacità d’adattamento dei soggetti influiscono e diluiscono nel tempo ma non cancellano le occasioni di conflitto.

Lo sviluppo irresponsabile della specie umana senza il controllo della ricaduta della replica del numero degli individui, dell’estensione senza limiti apparenti della durata della vita in rapporto alle dimensioni finite del territorio e dell’impoverimento delle risorse naturali, hanno portato la nostra specie al limite della “catastrofe”.

Una “catastrofe” che sarà terribile per la crudeltà e l’esito senza futuro che riserverà alla nostra specie, indipendentemente dalla forma in cui si manifesterà, sia che si giunga ad un conflitto globale tra gli individui e l’ambiente, sia che si giunga ad un conflitto globale tra gli individui per il controllo delle risorse naturali.

Riflettevo sull’eccessivo peso dato alla questione dei nomadi. Sono sempre convinto che l’ambiente sia molto più condizionante di quanto si creda, anche rispetto le dinamiche sociali, tant’è che mi piace parlare di ecologia sociale.

A mio parere i nomadi sono popolazioni (non popoli), che occupano i nostri spazi vuoti e si alimentano dei nostri rifiuti, come molte specie animali. Questa considerazione personale sorge dalla lettura analitica delle leggi dell’ecosistema per cui ad ogni essere vivente, razza o specie animale corrisponde una funzione univoca e caratteristica.

Come negli animali non c’è un’unica specie, così nella specie umana non vi è un’unica popolazione. Come ci insegna Darwin i tipi all’interno delle specie non sono altro che il prodotto della selezione dell’ambiente. Analoghi ai nomadi sono e saranno anche altre popolazioni di extra comunitari con difficoltà di adattamento, senza fissa dimora organizzati, ecc. la corte dei miracoli piuttosto che i vagabondi della letteratura americana ma anche lautari, gitani, ecc.

Come molti dei nostri progenitori sono una popolazione di cacciatori-raccoglitori. In condizioni normali il loro numero sarebbe molto basso e il loro nomadismo dovuto alla necessità di reperire le risorse su un territorio immenso, una condizione necessaria alla sopravvivenza della loro specie.

Se ora sono numerosi ed è cresciuta in modo spasmodico la tensione nei loro confronti è perché noi stessi gli stiamo offrendo una quantità di risorse e di spazi eccezionali di cui servirsi. Ciò che per noi è uno scarto (alimenti, vestiario, oggetti, territorio) per loro è una risorsa. Senza il controllo e il riassorbimento ove possibile delle risorse in eccesso non solo ci esponiamo ad una loro maggiore presenza, ma ne favoriamo anche la stanzialità, inducendo profonde modifiche nella loro cultura e nei loro comportamenti sempre più aggressivi.

Se vogliamo contenerne il numero favorendone l’integrazione l’unica soluzione è avere più cura del nostro territorio, evitando l’abbandono delle aree e riducendo la produzione di rifiuti non solo alimentari ma anche e soprattutto materiali (automobili, elettrodomestici, abiti ancora funzionati e funzionali).

Se ci pensate occupano le nostre fabbriche dismesse e vivono in prossimità delle discariche non per scelta ma per una necessità atavica. Con l’aumento delle risorse aumenterà la pressione e presto saranno occupati i vuoti che si stanno formando all’interno delle nostre città innescando conflitti e competizioni con le altre popolazioni emarginate.

Alcuni film come ad esempio 1997: Fuga da New York del 1981 o Interceptor (Mad Max) del 1979 che all’epoca erano assolutamente lontani dalla realtà, ora risultano opere estremamente lungimiranti.

Dobbiamo favorire l’integrazione non solo attraverso le politiche sociali e l’educazione alla tolleranza, ma anche attraverso un progetto per la gestione e lo sviluppo del territorio.

L’istituzione del PGT è una prima occasione per attuare questo progetto e ciò deve avvenire a partire dalla revisione di molti pregiudizi. Primo tra tutti sull’urbanistica.

Non possiamo continuare a perseguire l’idea che il recupero delle corti dipenda da progetti unitari, perché una cosa sia bella non deve essere forzatamente totale e totalizzante. Non c’è un solo esempio in tal senso in architettura, pensiamo allo skyline di New York o Tokio, ai tetti di Parigi o Praga, al meglio di Portofino o al souk di Instabul, alle piazzette delle cittadine toscane o greche. Molte delle cose che consideriamo belle sono date dalla frammentarietà, dal frazionamento, dalla molteplicità delle forme.

Il giallo Milano è un’invenzione, anzi il perpetuarsi di un’infame memoria di sofferenza e sfruttamento padronale sui salariati. Le corti sono la soluzione estrema dell’inurbazione della rivoluzione industriale in cui si trovò a operare don Bosco per sottrarre alla violenza della promiscuità e all’insalubrità i ragazzini.

Se vogliamo fare urbanistica, se mai il termine esiste, dobbiamo confrontarci con la realtà dove i modelli abitativi delle modernità sono fatti di villette, palazzine, capannoni, ecc.

L’integrazione come condizione di recupero prima che sociale deve essere architettonica, o perlomeno l’una produce i migliori risultati in funziona dell’altra. La tolleranza è una condizione reciproca e l’unica arma contro la conservazione come condizione di favore della speculazione e dell’infiltrazione mafiosa.

Giuseppe Brollo